
Non si può comprendere il significato più profondo del recente viaggio di Papa Francesco in Iraq se non partendo dalla rivoluzionaria sua ultima Enciclica Fratelli tutti.
La parola dell’Enciclica Fratelli tutti (solo oggi possiamo comprenderlo appieno) non può e non deve essere intesa come una pura esortazione.
Papa Francesco ha sempre saputo che la sua Enciclica sarebbe divenuta pienamente comprensibile solo attraverso una testimonianza diretta – ovvero compiuta in prima persona – della necessità assoluta di una fraternità integrale, di un riconoscimento, concretamente attuato, dell’altro come fratello, quale unica via capace di cancellare ogni precedente punto di vista politico e religioso.
Bisognava quindi che l’uomo di Roma ritrovasse, certo, la strada dell’uomo di Ur. Ma soprattutto era necessario che ripercorresse la strada del Santo del quale ha scelto di portare il nome, come lui ponendosi da fratello di fronte a tutti gli altri uomini, guardandoli negli occhi e lasciando parlare il cuore.
La componente umana è, del resto, sempre stata decisiva nel magistero di Papa Francesco; e, proprio per questo, capace di rendere tale magistero profondamente cristiano e francescano.
Così, come il Santo di Assisi in Terrasanta, Papa Francesco è andato in Iraq per dire, ad alta voce, al mondo che per chi crede non ci possono essere nemici.
A Ur dei Caldei, luogo di origine del Patriarca di tutte le fedi monoteiste, Papa Francesco ha voluto incontrare i suoi fratelli in Abramo non da figlio privilegiato, ma da fratello accanto ai suoi fratelli.
Il viaggio in Iraq, quale logica e concreta affermazione dell’Enciclica Fratelli tutti, chiarisce quindi a tutti noi che se la religione è il riconoscimento di aver bisogno dell’altro per esistere, può divenire anche potenza invincibile che unisce, forza inarrestabile che abbatte muri e frontiere e porta alla pace fra tutti gli uomini.
L’incontro con il novantenne Ayatollah Alì Al Sistani (che è nato in Iran, ed ha esercitato una guida spirituale riconosciuta – per lungimiranza e saggezza – anche da chi non appartiene all’Islam sciita) ha forse rappresentato il punto più alto di questo incontro tra fratelli, figli di un solo, unico Dio. Ed ha idealmente completato quell’incontro di natura non solo spirituale con i fratelli musulmani che Papa Francesco aveva già iniziato con i più alti esponenti dell’Islam sunnita, in primis con l’egiziano Ahamed al Tayyeb, Imam di Al Azhar.
Del resto, come Papa Francesco, anche l’Ayatollah Alì Al Sistani non ha mai inteso svolgere un ruolo politico, ma piuttosto quello di uomo di fede che lavora per la fratellanza e per la difesa di tutti i fratelli uniti nella fede per l’unico Dio.
Dopo l’intervento militare a guida statunitense che nel 2003 aveva abbattuto il regime baathista, è stata proprio una fatwa proclamata da Al Sistani a richiamare tutti i musulmani sciiti a tutelare i membri delle comunità di fedi sorelle, compresi i cristiani. Tantoché nel 2005 i cristiani iracheni espatriati negli Stati Uniti avevano addirittura lanciato la candidatura di Al Sistani a Premio Nobel per la Pace, motivando tale scelta con il fatto che Al Sistani avesse “fornito ai musulmani di tutto il mondo un buon esempio di come seguire modi pacifici per risolvere le complesse sfide sociali e politiche da affrontare, condannando il terrore”.
L’incontro a Najaf, città sacra dello sciismo mondiale, si è svolto fra Francesco e Al Sistani – proprio come si fa tra fratelli – in modo semplice, nella piccola casa dove egli vive. Papa Francesco vi è giunto a piedi, percorrendo il vicolo ove è posta la piccola dimora, accanto al Santuario dell’Imam Alì, che con i suoi minareti alti quaranta metri e la sua cupola di mattoni d’oro è considerato il terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Sacra Pietra della Mecca e la Moschea del Profeta a Medina.
Alì Al Sistani ha accolto il fratello Francesco in piedi, in segno di affetto e di rispetto. Hanno parlato a lungo, quasi per un’ora; e hanno pregato, insieme, l’”unico Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità per l’amata terra irachena, per il Medio Oriente e per il mondo intero”.
L’incontro con Al Sistani – così come gli altri appuntamenti a Baghdad, a Mosul e negli altri luoghi del territorio iracheno, che hanno scandito il viaggio di Papa Francesco in Iraq – ci deve quindi far ben comprendere come l’interpretazione politica di tale viaggio esuli totalmente dal significato che comunemente si da a tale concetto.
Il viaggio di Francesco può infatti definirsi politico nel senso di viaggio compiuto per prendersi cura della polis, intendendo qui la polis non solo come lo spazio comune di Chiese sorelle, ma soprattutto come la città degli uomini, ovvero l’intera Umanità; la quale, oggi come mai, ha bisogno di princìpi di dialogo e di cooperazione per far sì che il domani non sia tempo di guerra e di conflitti divisivi e distruttivi, bensì tempo di accordo e di condivisione.
Ecco perché Papa Francesco ha voluto iniziare il suo cammino proprio da quel Medio Oriente che, per i suoi millenari conflitti, diviene da questo punto di vista il luogo simbolo da cui dare inizio al nuovo e definitivo viaggio verso la pacifica convivenza di tutti gli uomini.
Alla diplomazia laicamente intesa, che fino ad oggi si è dimostrata incapace di risolvere i conflitti (in Medio Oriente come nel resto del mondo) Papa Francesco è stato capace di sostituire lo spirito dell’incontro e della collaborazione, per costruire una vera politica di pace: questo è il messaggio politico del viaggio del Papa.
Ma qual è forse il più nascosto, ma non meno importante, significato nel viaggio di Papa Francesco in Iraq?
Per comprenderlo dobbiamo essere capaci di guardare, sul suo esempio, con gli occhi del cuore.
Il viaggio di Papa Francesco è stato, prima di tutto e sopra ogni cosa, un atto di pura fede, il modo più alto di esprimere il proprio essere, da parte di un uomo che ha fatto della semplicità del Vangelo la stella polare del proprio magistero.
Perché Papa Francesco è profondamente convinto che solo con la forza debole e umile del Vangelo è davvero possibile cambiare la storia del mondo.
Così (e questo è il più profondo e vero significato che siamo tutti chiamati a comprendere) questo viaggio in Iraq ci sprona a condividere in modo definitivo e convinto quel concetto di fede che Papa Francesco vuole che facciamo anche nostro, accogliendolo nei nostri cuori: una fede che è fatta di apertura al rischio, e del bisogno di mettersi in gioco in un modo totalizzante, completo e radicale.
Dobbiamo essere pronti a lasciare le nostre certezze, la nostra terra, i nostri punti fermi, per affidarci radicalmente a Dio, prima di ogni altro calcolo personale o di ogni razionale considerazione.
E per affidarci radicalmente a Dio, secondo Papa Francesco la nostra fede deve essere prima di tutto intesa come un andare incontro all’altro, in maniera piena e totale, nel nome di un Dio che è venuto (Egli stesso) incontro agli uomini, donandosi per primo a noi come atto del Suo supremo Amore.
Questa, ci dice Papa Francesco, è la vera, unica e possibile lettura del Mistero della Vita, Morte e Resurrezione di Gesù, l’uomo di Nazareth capace di cambiare per sempre la storia del mondo.
Sulla strada dell’Uomo di Ur