
La Parola
In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli Ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola”
Le parole
La scelta dello Spirito in tempo di crisi
di don M. D. Piciocchi
In questo brano degli Atti degli Apostoli, il Vangelo della Chiesa della prima ora, si intrecciano diversi aspetti che lo rendono attuale ed efficace per comprendere la realtà della Chiesa di oggi e l’opera dello Spirito che, dono del Risorto, assiste la comunità dei credenti fin dai suoi primi passi.
In primis, il malcontento della gente. La gente mormora, alcuni gruppi si contrappongono ad altri, ci si sente trascurati i propri diritti, ciascuno si batte accampando le proprie ragioni.
Ognuno ha in mente la propria scala di priorità, il proprio da farsi, ognuno sembra voler suggerire allo Spirito e ai ministri, nel caso di specie gli apostoli, come, dove, quando agire. Nulla di nuovo, insomma, nulla di strano.
La Chiesa è, per volere di Gesù stesso, comunità di uomini e di donne non perfetti, non “sempre sul pezzo”, con la loro propria umanità che li rende inclini all’errore.
Da un lato il lettore di questa pagina è portato a immedesimarsi nelle povere vedove che hanno desiderio di pane e di carità; è giusto, è legittimo, trova radice nell’essenza stessa del Vangelo annunciato, che, altrimenti, vuoto sarebbe se non trovasse la sua pratica e concreta applicazione nella cura del povero e del debole.
D’altro canto, però, la lettura di questo brano non può non generare empatia verso questi instancabili Apostoli, spinti dallo Spirito ad annunciare il Vangelo, a battezzare, a battere ogni angolo della terra in lungo e in largo per far incontrare il Crocifisso Risorto a chi ancora non lo ha conosciuto ma non preservati dalla stanchezza, dall’incapacità di far fronte a tutto. Il Signore li ha costituiti Apostoli, non supereroi!
Una crisi, dunque, che può portare a una rottura, due posizioni contrapposte, ciascuna legittima a modo suo, che rischiano di sfaldare e di spaccare l’orizzonte irenico della prima Chiesa. Sarebbe la vittoria del Tentatore, che vuole i Figli di Dio l’uno contro l’altro, che sogna una chiesa divisa, frantumata, spaccata.
«Tra voi non sia così», aveva detto, però, il Maestro. Tra voi non ci sia inimicizia, ma tutto si concili nell’azione dello Spirito, che sempre sa indicare una strada nuova.
La via più breve, più facile, sarebbe stata la separazione; rinchiudere nuovamente il Vangelo nei confini del giudaismo, farne una setta, lasciare agli altri il loro credo, il loro culto, il loro ministero.
Ma la Chiesa, così sembra suggerire lo Spirito Santo, non è una linea melodica chiusa; è, piuttosto, una sinfonia, una pluralità di voci, tutte degne di essere sulla stessa partitura, tutte legittime, tutte ispirate dallo stesso Spirito, che compongono un’armonia “divina” proprio a partire dalle differenze, dai diversi accenti, dagli alti e dai bassi che si incontrano senza scontrarsi.
È andata così nella Chiesa del primo secolo; di fronte al pericolo della divisione, lo Spirito ha indicato una strada differente: la diversificazione dei ministeri e dei Carismi.
I Diaconi, i sette uomini colmi di Spirito e saggezza, e le altre forme ministeriali che nei secoli la Chiesa a conosciuto e visto sorgere, sono dono dello Spirito Santo, sono linfa nuova gettata nel cuore della Chiesa. Sono il desiderio di Dio che nulla vada perduto, che la mensa della parola e quella del pane celebrato e spezzato nella carità siano servite nella maniera più opportuna.
L’elezione dei Diaconi è, dunque, il segno che il Signore desidera che ciascuno possa trovare il proprio posto nella Chiesa, che ciascuno possa sentirsi chiamato ad uno specifico servizio a Dio e al prossimo, che le mie, le tue, le nostre mani unite faranno crescere il Regno di Dio.
Essere “diaconi” per una società più umana e collegiale
di E. Perrone
Diaconus: “servitore”, questa la premessa semantica di un carisma fondamentale nella vita della Chiesa, vero DNA della sua missione sulla terra, secondo la precisa e fondamentale indicazione-testamento di Gesù che, in particolare col gesto concreto e profondamente simbolico della lavanda dei piedi, ha detto senza mezzi termini che la dimensione del servire è l’essenza del cristiano, il cuore della vocazione-carità.
E se scivoloni comportamentali, contraddizioni teologiche, tentazioni di potere non sono mancati nella sua vicenda plurisecolare (… e non poteva essere diversamente, impastata com’è di debolezze e fragilità tutte umane), la Chiesa ha sempre posto con convinta forza il valore della “diaconia“ al centro della sua visione salvifica: non a caso è proprio questo il primo ed imprescindibile gradino della formazione del presbitero, a significare, appunto, che tutta l’impalcatura del suo “apprendistato“ si fonda sull’imperativo del servire.
Il “chiamato“, in ogni stagione della sua missione, è innanzitutto una persona che ha scelto di spogliarsi di sé e di votarsi all’altro con perenne gratuità, essendo la freccia direzionale del suo agire sempre impostata dove c’è il bisogno materiale e dove si richiede l’annuncio della Parola: le due “mense”, appunto, oggetto da sempre prioritario dell’azione diaconale con la sua ininterrotta, triplice connotazione caritativa, liturgica e d’insegnamento dottrinale.
Ma la diaconia, con la forza dirompente e costruttiva della sua carica, non scandisce solo il ritmo interno della vita della Chiesa perché il suo “cuore“ riesce a battere anche al di fuori, nel grande mare dell’esistere umano nelle sue variegate e contraddittorie relazioni. Voglio dire, cioè, che a partire da essa la Chiesa è riuscita a fornire, pur nella limitatezza della sua natura impastata di “terrestrità” e perciò “semper reformanda”, un modello di solidale prossimità all’umanità indebolita dalle sue fragilità, soprattutto offrendo una fondamentale risposta di “ senso “ a quello che è il drammatico problema per l’uomo di ogni tempo: la consapevolezza del suo limite, coincidente con una strutturale condizione di debolezza, fragilità, necessità del corpo e dello spirito.
Infatti essa, da sempre “ospedale da campo“, non cessa di prendersi cura delle umane povertà chinandosi sulle ferite e sui drammi quotidiani della nostra limitata condizione esistenziale e ciò ancor di più nel contesto di una pandemia che ha acuito drammaticamente le disuguaglianze, ha accentuato a dismisura il disagio sociale, ha ulteriormente incattivito le relazioni interpersonali: ennesima conferma che, pur immerso in una bolla di onnipotenza, l’uomo si scopre puntualmente solo e spesso sconfitto, con la conseguente, realistica constatazione che è nella “relazione” che si ri-assapora la vita, la speranza, la salvezza.
Da ciò scaturisce un’altra, decisiva conseguenza carica di effetti positivi per tutta la società e che riguarda ogni cristiano che “è” chiesa: l’essere “servi” infatti, oltre a qualificare nella sua totalità la missione del ministro di Dio e a porsi come base imprescindibile dell’azione della Chiesa secondo l’indicazione di Gesù (Mc 10,35-45), può essere assunta come un’opportuna seppur difficilissima scelta di vita che ogni cristiano potrebbe provare ad applicare nella sua quotidianità perché il mondo si riconcili con la sua umanità più profonda e vera proprio nella sua debolezza e cioè nel bisogno.
Ora, volendo allargare ancor di più il discorso, se ciò costituisce un’opzione fattibile e preferenziale per il cristiano che è anche a tutti gli effetti una persona come gli altri inserita nella realtà giornaliera, perché non tentare, più in generale, di sperimentare nella dimensione più propriamente laica una tale, seppur così scomoda ma percorribile categoria del servire?
Utopia? Forse.
Ma l’esperienza, anche nei nostri tempi così ostentatamente ipertecnologici, c’insegna che il mondo, cioè ciascuno di noi, si salva e si ri-costruisce a partire dallo spirito del samaritano, non certo dalle illusioni di un egoismo cieco e superficiale che può offrire solo effimeri piaceri e “regalare“, con l’indifferenza della materia, macigni di sfiducia e profondissimi pozzi di solitudine.
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