
La Parola
1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. (Mt 18,1-5)
Chi è dunque il più grande? Il più piccolo
di don Massimiliano Domenico Piciocchi
“Chi è dunque il più grande?”.
Ossessione dell’essere umano antica quanto il mondo. Voler primeggiare, stare davanti, apparire, essere riconosciuti e, perché no, ricordati sono moti d’animo che attraversano il cuore degli uomini fin dalla notte dei tempi.
Il progresso, la cultura dell’apparire a tutti i costi, il divario sociale che si acuisce sempre di più sono degli acceleratori che spingono gli uomini in un’eterna competizione.
Non dobbiamo meravigliarci, dunque, se questi atteggiamenti e questi desideri non proprio evangelici si insinuino anche nel cuore dei discepoli.
Gesù non si dà posa nell’annunciare il Regno di Dio e la sua giustizia, la fraternità universale resa solida dall’amore di Dio, e i suoi, subito, si prodigano per sapere chi avrà, in quel Regno, un posto di riguardo. Come definirli questi discepoli? Semplicemente uomini.
Quanto sono umani i personaggi del Vangelo! Quanto ci somigliano!
Né la Chiesa di ieri, né quella di oggi è al riparo dall’arrivismo, dal protagonismo, e dai tanti “ismo” che si celano, peraltro in maniera maldestra, all’ombra della creatività pastorale o della necessità di mediare i contenuti del Vangelo in forme nuove.
Cosa direbbe Gesù oggi? Esattamente ciò che dice nel Vangelo. Non ammonisce, non squalifica la richiesta etichettandola come inopportuna o fuori luogo. Si inserisce, anzi, in una richiesta inopportuna per farne motivo di profondo insegnamento.
Gesù stupisce, Gesù sovverte, Gesù converte il modo di vedere che il mondo promuove e insegna costantemente.
Un bambino in mezzo a un’assemblea di adulti, in una cultura come quella semitica in cui l’infante e la donna erano tenuti in scarsa considerazione. Un bambino posto al centro dell’assemblea come modello.
“Arrendersi” con fiducia da piccoli alla volontà del Padre: il segreto del Regno dei Cieli
di Ernesto Perrone
Davvero… incorreggibile questo nostro Gesù: ci spiazza sempre, non è mai banale nelle sue risposte, sembra fatto apposta per scompaginare puntualmente tutte le nostre presunte certezze; e ogni volta che prendiamo in mano il Vangelo dove è riversato il suo insegnamento, ci scuote dal profondo, colpisce con un ben assestato pugno nello stomaco tutti gli alibi che ci costruiamo per cementare le scelte delle nostre vite.
E anche nei versetti di Matteo (18,1-5) non si smentisce là dove definisce in poche, essenziali e (per noi) disturbanti parole il ritratto di chi sarà” il più grande nel regno dei cieli”. I discepoli, cioè in fondo ognuno di noi, si aspettavano ben altri riscontri sul tipo:” chi è più forte”, “chi è più coraggioso”, “chi sa sgomitare con furbizia e prepotenza nella giungla della vita”. Niente di tutto questo: come al solito, Gesù ribalta i nostri (limitati) parametri e con gesto e parola, questi sì rivoluzionari, enuncia quella che suona come una vera e propria inappellabile sentenza perché di fatto va a condannare tutte le nostre pretese: è il “bambino” l’erede del regno dei cieli. Ma cosa vuole intendere veramente il Cristo con questa risposta che potrebbe suonare semplicistica e piuttosto irrealistica se solo si considera il ruolo davvero minimale, per non dire di poca o nessuna considerazione, riconosciuto ai bambini, privi in realtà di poteri e di diritti, ai suoi tempi.
Cosa vuol significarci allora il Maestro con tale ennesimo paradosso “a contrasto”, arma privilegiata di chi è il Logos per definizione per scardinare il bunker delle nostre mediocri ed egoistiche logiche esistenziali? A completare il quadro di una più plausibile comprensione del testo evangelico, occorre anche aggiungere che “piccolo”, nel linguaggio aramaico, era usato per gli indifesi, per i disprezzati, dunque per quanti avevano bisogno di attenzione e di cure. Proprio partendo da quest’ultima notazione sociologica e volendo in qualche modo attingere – certo in punta di piedi – al vasto campo dell’indagine psicologica, sarebbe utile ma anche di fondamentale rilevanza trasferire la categoria di “bambino”, evocata da Gesù e che allora indubbiamente non brillava per una sua accezione positiva, ad oggi e soffermarci un attimo sul suo significato. Il perché di questo, che ritengo un doveroso confronto, nasce dalla constatazione di un contesto assai diverso da quello di oltre 2000 anni fa e che, a mio avviso, spesso si presenta comunque distratto e superficiale al punto da confinare il ruolo del bambino in un limbo marginale non più da soggetto, ma da oggetto, dimenticando ch’egli è un essere umano a tutti gli effetti anche se in via di formazione.
Infatti questi appare sempre più destinatario di una valanga di messaggi non sempre pedagogicamente costruttivi perché siamo immersi in una società così materialistica che quasi minaccia di stritolare nel suo onnipotente ingranaggio anche l’universo “infanzia”.
D’altra parte, a fronte di questa poco invidiabile situazione che interessa molti ma certo non tutti gli adulti, resta un dato incontrovertibile: il bambino viene comunemente percepito e riconosciuto (e questo è un indubbio progresso rispetto al passato) come essere umano dotato di dignità e identità, che però, essendo di fatto una realtà vitale incompiuta, è costantemente bisognoso di aiuto, sostegno, guida.
Per comprendere bene ciò, basta limitarsi ad osservare la fondamentale ed emblematica dinamica familiare: i nostri figli, quelli che in gergo affettuoso chiamiamo anche i nostri “piccoli”, si affidano totalmente alle parole e ai gesti di noi genitori nel loro cammino quotidiano.
Da qui tutto il discorso, assai delicato e non sempre affrontato con la richiesta serietà, delle responsabilità, proprio in virtù di questa debolezza infantile, circa l’educazione e più in generale sulle risposte che noi diamo ai perché dei nostri ragazzi.
Ecco, io credo che, mantenendoci su tale parallelismo e facendo nostra la dialettica genitori-figli, si possa trovare una risposta plausibile al paradosso, apparentemente insanabile, posto da Gesù nella pericope matteana.
In altri termini, come il bambino è colui che, a causa della sua personalità in fieri si affida con innocente fiducia ai suoi genitori da cui si attende sicurezza, affetto, cura, così per Gesù “piccolo” è chi, per effetto della sua balbettante fede, sa abbandonarsi, con spirito di piena e filiale dedizione, alla volontà di Dio (e una traccia di tale atteggiamento lo ritroviamo anche nel termine Islam) che non cessa di offrirgli protezione e conforto, con la mèta finale dell’eredità del regno dei cieli.
Quindi, “piccolo” è ciascuno di noi credenti, umile e semplice, che sa consegnarsi al Padre per realizzare la sua volontà e da cui riceverà la giusta ricompensa della sua eterna, appagante presenza.
A ben vedere non si tratta di un messaggio di rassegnata accettazione di un qualcosa di subìto o di un interscambio di attesi favori, ma del riconoscimento che Dio è centrale nella nostra vita, che senza di lui non c’è vera pace, né serenità né salvezza. Da lui, padre buono, non può venire che ogni bene per noi. Fare la sua volontà, perciò, non è rinunciare alla nostra di volontà ma significa renderla più sincera e autentica al fine di perseguire il bene nostro e del mondo.
Se ci “convertiremo” e ci “arrenderemo” a questa dimensione non certo biologica ma esistenziale-spirituale dell’essere piccoli, allora sì che potremo crescere sulla via della realizzazione del progetto di amore di Dio e quindi davvero otterremo il riconoscimento di “grandi” ai suoi occhi: dunque, non perché bravi a fregiarci di pur altissimi meriti mondani raggiunti nella giungla delle nostre vite a tutti i costi e con tutti i mezzi, ma perché coerenti nell’aver saputo accettare e vivere ogni giorno quella che è la ricetta di sempre dell’insegnamento di Gesù, l’amore scambievole che – nel segno e nel nome del nostro comune padre buono che è Dio- si dà senza aspettarsi nulla.
Un ulteriore monito, quindi, e un’incisiva sollecitazione, per chi come noi è… di corta memoria, a tenere ben presente che nel nostro cammino di fede chi conta veramente non è l’egoistico “io“, ma sempre e soltanto Dio.
La Parola, le Parole