
La Parola
11Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
12A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Le Parole
Accogliere: la dinamica dell’amore
di don Massimiliano Domenico Piciocchi
Nella liturgia del giorno in cui la Chiesa fa memoria del Natale del Signore, ogni anno, puntualmente ci imbattiamo nell’ascolto del prologo del Vangelo di Giovanni. Un vero e proprio esercizio di mediazione della Parola per il Sacerdote, chiamato a districarsi tra logos, sarx e altri termini della teologia giovannea, così densi di significato da mettere in difficoltà anche l’oratore più abile e i fedeli, forse troppo inclini alla distrazione per la lettura di un passo così lungo e articolato. «E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»: è il versetto 14 ad imporsi all’attenzione di ogni ascoltatore, a fissarsi nella memoria del Natale per ciascuno di noi. È la sintesi del mistero che celebriamo sull’altare, è la porta d’accesso della nostra speranza, è il punto di contatto tra cielo e terra, è l’alleanza nuova sancita nella carne. In queste poche parole si nasconde tutto il senso dell’attesa che abbiamo vissuto, unita all’attesa dell’intera umanità; la fame di sguardi, di parole, di vita, di salvezza del popolo si compie nella nascita di un bambino. È il Verbo a farsi carne, è Dio, che con la Sua parola ha creato e dato vita al mondo, a dare senso alla vita pronunciando l’ultima Parola, quella definitiva, che sgorga dal seno della Trinità. Nel mistero che celebriamo nel giorno del Natale, la Parola si fa carne, si fa uomo, si fa figlio e la storia diventa pienamente storia di salvezza.
Quando guardiamo al Natale come l’atto definitivo in cui Dio viene incontro all’uomo al punto da farsi uomo, corriamo, tuttavia, il rischio di cogliere soltanto parzialmente la dinamicità di questo mistero. È come se rischiasse di sfuggirci una delle due direttrici del Natale, quella che dall’uomo porta a Dio. Natale non è uno spettacolo da guardare in poltrona, non può ridursi a una routine, per quanto bella e folkloristica, di riti, parole, luci che raggiungono la nostra vita mentre siamo lì, accomodati ad attendere. L’incarnazione è un mistero che ci vuole svegli, pronti, attivi, “con le vesti cinte ai fianchi” per usare un’immagine della Scrittura. Natale è un mistero da accogliere. “Alzati o uomo, scomodati un po’, fatti carico di questo bambino che è nato” sembra dirci la Parola di Dio a Natale. Non a caso, uno dei verbi che Giovanni usa come discriminante per indicare quelli che hanno compreso il senso della venuta del Signore nella carne dell’uomo è “accogliere”.
Accogliere Gesù, dunque, è la vera cifra del Natale, è il movimento che l’uomo è chiamato a compiere verso Dio. “Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto” annuncia deluso l’autore del quarto Vangelo. Non è scontato, ci dice Giovanni, che l’uomo si accorga della grandezza del mistero che Dio gli svela davanti agli occhi. Accogliere Gesù che nasce non solo non è scontato, ma è difficile, impegnativo, scomodo.
Accogliere Gesù significa andare oltre la patina commerciale del Natale, non è l’impegno di un giorno o di un tempo, ma di tutta la vita. Accogliere Lui è accogliere il fratello in cui lui mi si fa incontro, è accogliere il povero che mi incomoda, è chinarsi sull’ammalato che porta nella sua vita le stesse piaghe di Gesù, è avere il cuore libero per dare testimonianza nella propria carne, con la propria vita, a un Amore così grande come quello che Dio nutre per ciascuno di noi. Accogliere Gesù è andare contro il proprio orgoglio, morire a se stessi e alla propria vanità per incarnare ogni giorno la mitezza, la pazienza, la misericordia, la carità che Gesù di cui Gesù è venuto a impastare la nostra vita. Accogliere Gesù è calzare i sandali e mettersi in cammino, guidati dalla Parola, illuminati dallo Spirito e confortati dalla Misericordia di Dio, segno della benevolenza senza limite che il Natale ci annuncia. “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. In definitiva, ci sussurra Giovanni tra le righe, accogliere questo bambino, il Figlio, è diventare figli insieme con lui, figli che riconoscono il Padre, che desiderano assomigliargli, che vivono all’altezza del progetto bello che il Padre ha in serbo per ciascuno: la santità, la vita eterna, la gioia senza fine.
Lascia che Gesù faccia ardere il tuo petto e rinfocoli l’amore che sembra essersi assopito e poi ritorna nel mondo ad annunciare a tutti che il volto del pellegrino che hai incontrato per strada e che ti ha riportato alla vita è quello del Signore, Colui che ti chiama ogni giorno a crescere e a rinnovarti con Lui.
L’incarnazione di Dio: la sua parola definitiva per il mondo
di Ernesto Perrone
Io credo che si possa senz’altro affermare che, se esiste una parola capace di “fotografare” l’assoluta specificità del Cristianesimo, è proprio questa, presente nel prologo giovanneo: carne-incarnazione. Che valore dobbiamo dare a tale espressione che è davvero unica nel panorama delle religioni di tutte le epoche, comprese le “sorelle” (in quanto ugualmente monoteiste) Ebraismo e Islamismo? Non è per niente agevole rispondere ad un simile, impegnativo quesito perché si tratta di entrare in un mistero su cui legioni di filosofi, teologi, esegeti, intellettuali di ogni spessore possibile si sono letteralmente consumate le meningi: un Dio che “scende” al livello umano, anzi diventa uomo e “si sporca” con la terrestrità di questi! E poi, perché lo fa? Per amore di quella creatura che in qualche modo lo ha tradito volendo porsi essa su un piedistallo di orgogliosa onnipotenza. Non solo. Ma questo Dio, come chiariscono ulteriormente i versetti dell’ultimo evangelista, è venuto ad “abitare in mezzo a noi” (anzi, secondo l’originale greco, si dovrebbe dire letteralmente “ha posto la sua tenda tra di noi”, a ricordo e perfezionamento dell’immagine della tenda contenente l’Arca dell’Alleanza con le Tavole della Legge), sposando pienamente, ad eccezione del peccato, la natura fragile e debole dell’essere umano. Ora noi, figli frequentemente infedeli e ingrati di questo dono, lo abbiamo davvero “accolto”, volendo echeggiare la pericope di Giovanni?
Nel concreto, quale ricaduta ha questo incommensurabile gesto di offerta di sé rispetto alle resistenze delle nostre irriducibili debolezze? Una raffica di ardue domande alle quali non è facile dare una risposta univoca ed esauriente. Allora cominciamo a dire che, come allora e come spessissimo nel corso di questi 2000 anni di annuncio di salvezza, gli uomini non lo hanno del tutto recepito, o meglio (forse… o peggio) ne hanno fatto, sull’esempio degli Ebrei alle pendici del Sinai, un simulacro, un vitello d’oro, diremmo oggi una foglia di fico dietro cui nascondere le proprie ambiguità e incoerenze, alibi per celare le contraddizioni di una fede tentata dal comodo miraggio dell’usa e getta, abbracciata in una logica troppo spesso mercantile e di facciata. Infatti sono persuaso che, al di là di tanti e benemeriti figli del Dio vivente che hanno saputo rispondere- durante i secoli della parabola cristiana- alla chiamata d’amore con un sì convinto, oggi onestamente il nostro credere comune e quotidiano sia davvero di piccolo cabotaggio, che si accontenta di gesti e momenti di una consequenzialità piuttosto discontinua.
In altri termini ritengo che il più delle volte molti di noi non sono stati e non sono all’altezza di un’offerta di sé così “scandalosamente” libera e perciò stesso difficile da praticare, considerati i nostri inveterati limiti, nella nostra quotidianità. Troppo pessimismo nelle mie parole? Può darsi ma a guardare il livello e la qualità delle relazioni cui siamo giunti in questo nostro mondo oltretutto minacciato da tante piaghe, tutte figlie del nostro egoismo, non mi pare che la rivoluzione dell’amore, inaugurata da quel celebre Incipit “Il Verbo si è fatto carne”, abbia, in profondità e nel verso del bene, plasmato la dura crosta del vivere umano.
Certo, qualcuno potrà obiettarmi, che non tutto va poi così male; in fondo, il Cristianesimo, nelle sue bimillenarie propaggini di testimoni altamente credibili, ha cambiato in qualche modo il mondo, introducendo valori altissimi (quali, tra gli altri, carità, prossimità, solidarietà, cura del creato) che hanno trasformato (stavolta in meglio) la gestione del nostro tempo e delle individuali esistenze. Ma, come già sottolineava Giovanni (… ”ma i suoi non l’hanno accolto”), gli uomini hanno stentato e ancora oggi trovano difficoltà a vivere pienamente e fino in fondo l’input dato da Dio e concretizzatosi nella venuta e nel messaggio di Gesù. E’ come se nel bilanciamento delle nostre tendenze più profonde il “Caino” che è in noi riuscisse ad uccidere quasi regolarmente l’”Abele” che pure alberga nel nostro cuore. La grande e spietata lotta tra il Male e il Bene che Dio con Gesù voleva tradurre in vittoria definitiva del secondo sul primo resta ancora il grande problema del nostro come di tutti i tempi.
Dunque, ha sbagliato Dio che pure è infallibile e perfetto nella sua lungimiranza? La sua fondamentale scommessa di definitiva redenzione mediante Gesù l’ha persa? In realtà Egli la sua parte l’ha ben fatta, eccome; piuttosto siamo noi che, attratti dall’antico demone della tracotanza del nostro io, continuiamo a percorrere strade cieche, poco o nulla illuminate dal faro della parola divina.
Troppo convinti di poter fare a meno di Dio, ci inerpichiamo ogni giorno inconsapevolmente(?) sul dirupo scosceso dell’autosufficienza che può solo precipitarci, come già sta succedendo, nel baratro di una sconfitta generale ed irrimediabile dell’umanità. Vogliamo davvero proseguire fino in fondo questo diabolico e miope disegno di una inevitabile autodistruzione come società? Davvero i nostri occhi (e cuori) sono diventati così induriti dalla sfrenata ricerca del proprio ed esclusivo benessere da non vedere vicinissimi, e non solo fisicamente, gli affanni, i problemi, il degrado di tanti nostri fratelli lasciati indietro, per riprendere una famosa espressione del Verga, dalla “fiumana del progresso”? Davvero la svolta d’Amore che Dio si attende da noi è fallita senza appello?
Stavolta sono io ad essere meno pessimista e per almeno due motivi fondamentali: il primo, è costituito dai tantissimi e coerenti testimoni-lungo le strade del mondo- del Cristo vivo, che confermano come quella rivoluzione d’amore annunciata dalla venuta di Gesù non è un’astratta utopia destinata all’irrealizzabilità; poi, perché è ormai del tutto evidente, considerato lo stato degli attuali rapporti interpersonali e anche la non più rinviabile emergenza della “febbre” ambientale del pianeta-Terra, che senza il nostro partecipe coinvolgimento il disegno di un’umanità nuova, implicito nel messaggio cristiano, resterà sempre monco ed incompleto (alla luce anche del fallimento di quasi tutte le prospettive filosofiche, sociologiche, politiche e anche religiose che si sono avvicendate nel corso dei millenni).
Dunque, resta a noi l’onere, o meglio la gioia di riscoprire questo indicibile dono dell’Incarnazione, apparentemente assurdo per i nostri canoni di riferimento che sono centrati fondamentalmente sul nostro io. Dovremmo definitivamente convincerci che l’unica via di uscita alla schizofrenia collettiva dei nostri tempi, l’unico “ Green Pass” che ci può proteggere dal “contagio“ del nostro straripante ego è solo Gesù che si incarna e che viene in mezzo a noi e ci offre, solo per amore e perciò totalmente credibile, la prospettiva di un mondo possibile e differente dove ognuno può veramente riconoscere, toccare e far proprie, le fragilità altrui che sono il vero scandalo del nostro tempo così arido eppure così affamato di anima e valori: Cristo ci invita a non essere isole, ma onde potenti del mare della prossimità solidale e proficua, capace di spezzare le catene opprimenti delle diseguaglianze, delle ingiustizie, delle periferie(non sono materiali) del dolore. Lo vogliamo veramente?
La Parola, le parole