
La Parola
Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».
(Lc 11,27-28)
Le parole
Ascolto e vita: la formula della beatitudine!
di Don Massimiliano Domenico Piciocchi
Quando pensiamo al racconto evangelico, immediatamente si compongono nella nostra mente, in successione più o meno sparsa, i grandi episodi, quelli noti a tutti, ascoltati più volte nelle nostre liturgie, richiamati a più riprese nei diversi momenti della nostra vita di fede: gli incontri, i miracoli, le guarigioni, gli insegnamenti di Gesù, le parabole. Lì si condensa sicuramente il cuore dell’annuncio del Regno di Dio che Gesù compie fin dagli inizi del suo ministero pubblico, lì si intrecciano i fili del racconto. Basta richiamare un nome, un titolo e si apre, nel nostro intimo, il mondo dei significati che il testo a cui ci riferiamo rappresenta nella nostra vita. Zaccheo ci riporta alla fatica di scalare l’albero del nostro orgoglio e della nostra presunzione per aprirsi all’oggi della salvezza, che bussa alla nostra porta, che desidera sedersi a tavola con noi. La parabola del figliol prodigo accende nelle zone d’ombra del nostro cuore una luce, tocca i nervi scoperti di tanti figli costretti, prima o poi, a fare i conti con la paternità, di padri chiamati a confrontarsi con la misericordia da offrire come possibilità della vita dell’altro. E ancora, ad esempio, la guarigione del paralitico muove dentro ciascuno l’universo delle proprie paralisi, delle resistenze all’amore, al bene, alla gratuità, al dono, alla sequela di Cristo che si sciolgono davanti alla voce del Maestro.
Si compone, così, nome dopo nome, scena dopo scena, il “nostro” Vangelo, il racconto della salvezza che tocca la nostra vita e la spinge nella direzione del bene.
Accade, tuttavia, che tra e righe del Vangelo vi siano scene della vita pubblica di Gesù apparentemente secondarie, quasi di passaggio, al più di collegamento tra due episodi noti. Si corre il rischio, dunque, di considerare tali passaggi, come ad esempio accade nei sommari, solo in base alla loro funzione nel testo, ignorandone, o almeno tralasciandone, la ricchezza del contenuto.
Un rischio che si corre anche imbattendosi in questi versetti del Capitolo 11 del Vangelo di Luca. Una scena che non è sicuramente tra quelle più note, un personaggio senza nome, senza volto. Nel bel mezzo di un discorso di Gesù, questa donna, di cui sappiamo solo che è una tra le tante che compongono la folla, una di quelle a cui Gesù sta parlando, lo interrompe con un’esternazione spontanea, genuina, di quelle che rapidamente fanno la loro corsa dal cuore alla bocca: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato”. È sicuramente un cenno di approvazione, che ricorda tanto la genuinità con la quale le nostre nonne, nella loro semplicità, siglavano in maniera assertiva una parola ascoltata nella quale si riconoscevano. Si riconosce, dunque, questa donna nelle parole che Gesù sta pronunciando. A pochi versetti di distanza dalla preghiera del Padre nostro insegnata alle folle, il Maestro sta parlando dell’eterna lotta tra il bene e il male, del desiderio dell’avversario antico di farsi una casa nel cuore dell’uomo e della necessità di vigilare perché ciò non avvenga. Quanto è difficile tenere il proprio cuore a riparo dalla tentazione, dal male che è dietro l’angolo e cerca di impadronirsi di ciò che appartiene a Dio. Lo sa bene questa donna che un po’ ci rappresenta, ci dà voce nel dire: “Beato te!”. In qualche modo, però, questa donna, nel riconoscere beato Colui che parla e nel formulare la sua personale benedizione, nasconde un velo di rassegnazione. È così bello ascoltare Gesù che parla, ma è così difficile poi vivere concretamente ciò di cui sta parlando. È rassegnata, forse, alle sue fragilità, alle sue debolezze, alla sua incapacità di fare tutto il bene che vorrebbe o che potrebbe e, quasi in un gioco di specchi, di evitare il male nelle occasioni che quotidianamente la vita le pone davanti. È combattuta, probabilmente, questa donna: vive le nostre stesse difficoltà e, talvolta, le nostre stesse contraddizioni. Più percepisce come “beato” quel Gesù che le sta parlando, più, forse, si sente lontana, indegna, immeritevole di beatitudine. In queste battute così rapide del testo emerge una consolante certezza: Gesù non è sordo a quella voce, Gesù ascolta, coglie, prende in stretta considerazione anche le sfumature più nascoste del nostro cuore.
C’è una fame di beatitudine nelle parole di quella donna e Gesù si fa pane per saziare questa fame. Non la rimprovera, non la ammonisce, non la taccia di lesa maestà per aver interrotto il suo discorso con una frase che, a giudizio di molti, avrebbe potuto risparmiarsi. Lontano da ogni protagonismo, Gesù è Maestro fino in fondo, è lì per insegnarle una via nuova, un percorso di beatitudine nel quale potersi riconoscere anche lei.
“Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica”. Non è soltanto lui beato. La beatitudine, la santità, la felicità, la vita eterna non sono prerogativa esclusiva del Maestro, ma sono a disposizione di chiunque voglia fare seriamente in quest’opera di discepolato. Ascoltare la Parola, come Maria di Betania, che siede ai piedi di Gesù e pende dalle Sue labbra. Ascoltare con le orecchie sì, ma soprattutto ascoltarla con il cuore, biblicamente inteso come il luogo delle decisioni, lo spazio in cui l’uomo aderisce ad un progetto d’amore e di salvezza che in quella Parola è significato. Ascoltare è mettersi in discussione, mettere a tacere le altre voci che distraggono, allontanano, mistificano, ingannano. Ascoltare è fare spazio, farsi vuoto dentro per lasciarsi riempire dalla Parola, come l’esperienza biblica dei profeti ci insegna, come il prodigio accaduto nel ventre benedetto della Beata Vergine Maria ci testimonia. Ascoltare è più che sentire, è sentirsi in quella parola, gustarla e desiderarla, saziarsene e averne ancora fame.
Onde evitare, tuttavia, che si possa dare adito ad una qualche incomprensione o lettura parziale delle sue parole, Gesù, all’opportunità dell’ascolto della Parola aggiunge la necessità di metterla in pratica. Come altrove ci dice il Vangelo, l’albero è riconoscibile dai propri frutti; allo stesso modo, l’ascolto autentico della parola si distingue dall’ascolto superficiale nella misura in cui esso riesce a trasformarsi in vita, in gesti, in modi di essere che concretamente diano testimonianza della portata bella che la Parola racchiude. Non basta, ci suggerisce Gesù, che la Parola ci affascini, ci emozioni, che muova delle corde dentro di noi. Non basta che la Parola intercetti i nostri bisogni, le nostre attese, le nostre paure o i nostri desideri. C’è bisogno che la Parola diventi la nostra vita e che, al tempo stesso, la nostra vita diventi Parola, come accade per Gesù. Occorre essere Vangelo per gli altri, libro santo da sfogliare per incontrare il Signore nella carità offerta al prossimo, pagine d’amore scritte con il dito di Dio che toccano con gesti concreti di misericordia le ferite degli altri, in particolar modo degli ultimi, dei poveri, dei sofferenti, dei lontani.
Beati, dunque, coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica!
Gesù, la Parola di Vita che ci salva dalle nostre ipocrisie
di Ernesto Perrone
“Fiumi di parole” non è solo il titolo di un popolare brano musicale di qualche anno fa o un’espressione idiomatica usuale ed informale nel modo di parlare quotidiano, ma è anche la fotografia precisa e plastica di un fenomeno sociale ormai dilagante, soprattutto in questi due anni di pandemia che hanno provocato un’evidente e forzata rarefazione dei rapporti interpersonali con l’inevitabile conseguenza di un predominio assoluto sulle nostre vite dei mezzi di comunicazione virtuale, Internet in primis con tutte le sue applicazioni tecnologiche: pronunciamenti scientifici più o meno corretti, ricette politico-sociali di vario livello e affidabilità, mitragliate di opinioni sparate da tuttologi dominatori della scena televisiva e non, hanno riempito le nostre giornate (e soprattutto serate) in attesa di messianiche verità capaci di ribaltare una situazione di isolamento diventata sempre più intollerabile per le nostre personalità abituate alla piena libertà di azione e di pensiero.
Ma alla fine di questa valanga di informazioni, prese di posizione, scoop sui nostri destini e sul povero presente delle nostre vite sballottate tra un annuncio di speranza e il rintocco di una precipitosa marcia indietro, cosa è rimasto? Ben poco che abbia il crisma della sincerità e dell’imparzialità, “un fiume di parole”, appunto, inghiottito dall’amara verifica dell’inoppugnabile realtà.
In effetti troppo spesso, in questi mesi di frenetici “saliscendi” informativi, abbiamo preferito appigliarci a ciò che di più utile e facile (e soprattutto… comodo) poteva risultare per il nostro egoistico vivere, senza concretamente e seriamente verificarne l’attendibilità o la praticabilità. Insomma, abbiamo usato le parole degli altri per giustificare il nostro innato bisogno di sicurezze senza considerare che il più delle volte esse erano (e sono) espressioni di pensiero non del tutto sincere ma frequentemente dettate da interessi di parte, o scientifici o economici o politici: al di là di pur lodevoli ed apprezzate eccezioni, una vera e propria fiera della vanità presenzialista e ciarliera durante la quale il linguaggio della scomoda sincerità e dell’interesse altrui è stato davvero un “ospite” indesiderato.
Ora, se le cose stanno realmente in questi termini e se la vena pessimistica non mi ha… preso troppo la mano, mi domando: dobbiamo continuare a rassegnarci a tale giostra di presunte certezze abbellite, indorate, o, al contrario, catastrofiste che hanno inondato e condizionato le nostre smarrite esistenze ancora largamente intimorite dalla spada di Damocle del Coronavirus? Io credo proprio di no perché nelle nostre menti e soprattutto nei nostri cuori hanno ancora forza di cittadinanza attiva i richiami di grandi anime e di giganti della spiritualità, cultori delle verità ultime da cui poter comunque attingere la forza per non scoraggiarci.
E naturalmente, tra essi, anzi primo tra essi per un cristiano si pone Gesù, non a caso chiamato la “Parola” per eccellenza: egli, infatti, non è un, seppure affascinante, oratore qualsiasi o un efficace prestigiatore di promesse buone per tutti i gusti e tasche e nemmeno un annunciatore di mirabolanti e semplicistiche ricette risolutive di ogni problema, ma è parola di vita vera che non solo “dice” verità ma le incarna nella sua persona, anzi, come dire, “camminano con lui“; la sua testimonianza è indubitabilmente vera perché è la Parola di Dio resa visibile e reale in lui e quindi è verità infallibile, certo difficile da digerire dai nostri egoistici interessi ma in ogni caso non impossibile da realizzare.
E’ anche questo, allora, il senso dell’esclamazione di Gesù nella pericope di Luca in oggetto: la felicità, di sempre e quindi anche di questi anni difficili di prove legate al virus con tutte le conseguenze a ciò legate, viene da lui, solo da lui perché tutte le altre verità, spacciate come insostituibili ed irripetibili, sono soltanto dei pallidi surrogati del nocciolo autentico del messaggio di Cristo. Una “buona novella” che è l’unica, feconda novità nella storia dell’umanità, che non ha bisogno di sterminate enciclopedie, polverosi volumi, costruzioni filosofiche strutturate e spesso inconcludenti, per essere capita perché si riassume in una sola parola: “Amore”, verso di sé e verso i fratelli, che è poi la realizzazione verticale e orizzontale del nostro più autentico rapporto di fede con Dio.
E forse sta proprio in questa straordinaria ed efficace semplicità della verità cristiana anche tutta la difficoltà nel viverla perché purtroppo noi abbiamo bisogno, per le nostre insopprimibili ipocrisie, di tanti alibi per schivare “quella parola” che invece è l’unica via, il solo e concreto orizzonte per cambiare in meglio le nostre personali vite e il destino del nostro mondo.
La Parola, le parole