
di don Massimiliano Domenico Piciocchi
«E Dio disse», si apre così la storia del mondo nelle prime pagine del Testo Sacro. Tutto si inaugura con una parola, quella di Dio, che da subito mostra la sua forza dirompente. Una parola che crea, mette ordine, edifica, costruisce. Una parola che ha la forza di separare le acque, di dirigere il corso degli astri, capace di far buio e di far luce con un’unica emissione di fiato. Ci sono poche parole nel racconto di Genesi che tutti da sempre conosciamo: poche parole al posto giusto, in sequenza, che scandiscono l’ordine della Creazione e che mostrano tutta la loro consistenza. Non a caso, nella lingua in cui è scritta la Sacra Pagina, «parola» è molto più del bla-bla-bla che il vento porta via, della chiacchiera pronunciata per riempire un vuoto. La parola nella cultura e nel linguaggio semitico porta con sé tutta la sua consistenza: è fiato che si emette, è vapore e concetto che si fondono per mostrare tutto il loro peso, è «parola e fatto», che dà forma e consistenza nel momento in cui viene pronunciata. Parla così Dio: mai a vuoto, mai tanto per dire.
Proprio da quelle prime pagine viene fuori una prima grande verità: la parola ha un suo peso, una sua forza, inimmaginabilmente grande. La parola può creare, edificare, promuovere, mettere ordine o può distruggere, insidiare, insinuare, manomettere, calunniare, mistificare, ingannare come fa la parola dell’avversario. La parola fa la relazione, la sostanzia e l’uomo, fin da subito, è creato per essere “uomo di parola”: dà un nome alle cose, scopre nella parola la sua reciprocità con Dio e con l’altro che gli è posto accanto.
Oggi più che mai siamo nel tempo delle parole. Riecheggiano alla nostra mente le filastrocche di Rodari imparate da piccoli, in cui, a mo’ di cantilena, ripetevamo: «Abbiamo parole per vendere, parole per comprare, parole per fare parole … Abbiamo parole per uccidere, parole per dormire, parole per fare solletico… Abbiamo le macchine, per scrivere le parole, dittafoni magnetofoni, microfoni telefoni… Abbiamo parole per fare rumore». È così, in effetti. Non ci mancano parole.
Nel nostro mondo social dei “leoni da tastiera”, le parole si moltiplicano, crescono esponenzialmente, si gonfiano, quasi ci sfuggono di mano. Siamo nel vortice delle parole, talvolta piene di senso, ma anche vuote. Tutto ormai trova “diritto di parola” nelle nostre parole. Anche le offese, gli insulti, le accuse si siedono ormai allo stesso tavolo con le esortazioni – sempre più rare – con gli incoraggiamenti, con le parole delicate. Siamo chiamati, giorno dopo giorno, a fare i conti non solo con la mole di parole che si affollano dentro e fuori di noi, ma, soprattutto, con il loro peso e con la nostra difficoltà, sempre dietro l’angolo, di discernere la parola giusta con il giusto peso. Le parole che ci investono e quelle che ci appartengono possono essere propulsori per la vita dell’altro, che alleggeriscono e fanno decollare il bene, o macigni che si impongono con tutto il loro peso sul cuore e tolgono la vita.
Sarà forse il caso di riscoprire l’arte di imparare a “ponderare” queste nostre parole? Il nostro vocabolario ha bisogno, forse, di essere potato per tagliare via i rami secchi delle parole cattive e far finalmente fiorire i germogli per troppo tempo inespressi delle parole gentili?
«Ci servono parole per pensare… parole per amare» tuonava sempre Rodari a noi bambini. Oggi, ancor più di allora, questa è una realtà. Dobbiamo reimparare a usare le parole, disseppellire dall’oblio quelle belle che allargano la mente e il cuore, che ci fanno dialogare, tornare a trovare quelle parole che fanno bene, le parole che fanno il bene.
Il canto del Te Deum che ha chiuso il nostro anno non molti giorni fa, ad esempio, ci ha ricordato l’esigenza di riscoprire una parola. Dire “grazie” è fare un esercizio continuo di gratitudine e allo stesso tempo è una palestra di gratuità, in cui si torna al bello delle cose semplici, dei piccoli gesti. Dire “grazie” ci allena al dono, a farcene consapevoli e ad essere, a nostra volta, dono, offerente e offerta, un po’ come Gesù nel sacrificio della propria vita per la vita del mondo. Dobbiamo imparare nuovamente a dire grazie!
Dobbiamo tornare a dire “permesso”, ci ricorda Papa Francesco, per entrare in punta di piedi nella vita dell’altro, per generare comunione e non discordia. Come Mosè, con le nostre parole siamo chiamati a toglierci i sandali perché la vita e il cuore dell’altro sono terra santa su cui non trovano diritto di appartenenza i nostri giudizi, le cattiverie, le meschinità. Dire “permesso” significa considerazione, rispetto, sacralità, attenzione, cura.
Dobbiamo imparare da capo a dire “scusa”, ricorda spesso il Papa. Una parola che crea ponti e abbatte i muri, che scardina le porte più ostili e fa comunione. È una parola divina, perché ci fa costruttori di pace, perché è capace da sé di riportare vita dove sembra aver trionfato la morte. “Scusa” buca l’orgoglio e, nel novero delle parole gentili, è forse tra le più forti perché ci aiuta ad avere la giusta consapevolezza di chi siamo, nella nostra fragilità, e tornare ad essere ciò che Dio ha sognato.
«Parole per parlare non ne abbiamo più», concludeva rassegnato il caro Rodari. E invece no! Siamo ancora in tempo per invertire la rotta, abbiamo ancora parole se vogliamo per dirci il bene, abbiamo ancora parole gentili da riscoprire e vivere, c’è ancora l’opportunità di essere uomini di parola perché nelle parole degli uomini riecheggi la parola di Dio.
Quanto pesa una parola?