
La Parola
Matteo 5, 6 – 10
6 Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perchè saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi, perchè troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore, perchè vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perchè saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per causa della giustizia, perchè di essi
è il regno dei cieli.
Le Parole
La beatitudine dimenticata
di don Massimiliano Domenico Piciocchi
“Beato te!”. Quante volte abbiamo utilizzato questa espressione nella nostra vita! Spesso era corredata da un sentimento di rassegnazione che partiva dal constatare nell’altro un senso di realizzazione, di felicità, di beatitudine, a noi estraneo, da noi troppo lontano per noi forse quasi impossibile anche da desiderare. Non è questo, ovviamente, lo schema emotivo, né la comprensione razionale che sottendono le beatitudini enumerate da Gesù nel suo discorso appartenente alla tradizione comune al Vangelo di Matteo e a quello di Luca. I “beati” cantati da Gesù non fanno invidia per la loro condizione attuale: sono poveri, afflitti, miti, perseguitati, affamati e assetati di giustizia, da considerarsi beati in un orizzonte più ampio, quello del Regno dei cieli, che è eredità proprio di coloro che ora sembrano piegati e piagati dalla vita.
Può essere beata, dunque, anche la nostra vita, se ci poniamo nell’orizzonte del Regno, se entriamo con la nostra vita, concretamente, in questa schiera di “poveri in Spirito” amati dal Signore non tanto per la loro condizione attuale, quanto per la disponibilità sincera e autentica a giocarsi la vita fattivamente per l’edificazione del Regno di Dio.
“Beati i misericordiosi”, quindi, perché con le loro opere di misericordia rendono presente la misericordia di Dio. “Troveranno misericordia” probabilmente non dagli uomini – dai quali invece conosceranno l’inganno, l’ingratitudine, l’umiliazione – e probabilmente non in questa vita, che non è che l’accenno della vita eterna, la vera eredità che il Signore ha in serbo per i suoi.
“Beati gli operatori di pace”, poi, sembra essere una beatitudine d’altri tempi, proprio in questi giorni in cui lo spettro della guerra si è fatto concreto, vicino, ha bussato alle nostre porte con violenza e minaccia ogni giorno di più di entrare e portare il suo carico di devastazione, di miseria, di morte. Di “operatori di guerra” se ne vedono tanti in queste ore. Soldati impegnati, da una parte e dall’altra, a portare avanti il braccio grigio della guerra, politici arroccati nei propri interessi di parte che progettano morte, esperti di propaganda che impiegano tutte le loro forze a voler giustificare una guerra, che, come tutte le guerre, è solo un atto di follia.
È una sfida, oggi, essere operatori di pace. Ma la sfida vera è esserlo concretamente, non solo negli slogan, ma nella verità. Non possiamo pensare di assolvere al monito divino che ci vuole “pacificatori” rinchiudendo la pace in una bandiera e agitandola qua e là per la durata di un corteo e poi lasciare che la nostra vita continui allo stesso modo, imperturbabile. Essere operatori di pace è qualcosa in più, qualcosa di serio, che esige la serietà di un ripensamento della nostra vita. Gli operatori di pace che Gesù definisce beati “saranno chiamati figli di Dio”, gli somiglieranno.
Essere operatori di pace è imparare a somigliare a Dio nel modo di tessere, vivere, gestire le relazioni non per un giorno, non per l’occasione di una guerra, ma sempre.
Non possiamo sicuramente intendere le parole di Gesù come un invito a diventare esperti di politica internazionale, a farci mediatori dei conflitti internazionali. È nella nostra vita, è nel concreto dei nostri giorni e delle nostre possibilità, che Dio ci invita a diventare “operatori” di pace. La pace si fa, non si racconta. La pace si costruisce, non si teorizza. La pace vive di gesti concreti, di modi di vedere le cose e di vivere le relazioni che dobbiamo imparare proprio da Gesù.
È nell’orizzonte del nostro piccolo spazio – e non solo negli equilibri mondiali che non dipendono da noi – che dobbiamo educarci ed educare gli altri a una cultura di pace. Non possiamo, come gli ipocriti che Gesù smaschera nel Vangelo, piangere per la guerra e poi vivere continuamente lotte fratricide nelle nostre famiglie, in cui in piccolo si replica ciò che in grande avviene tra i popoli: fratello contro fratello, padre contro figlio, per un interesse spesso di natura economica che prende il sopravvento sul bene, sulla concordia, sull’armonia che sono vocazioni intrinseche delle relazioni familiari. Essere operatori di pace significa iniziare a costruire la pace, seminare gesti di bene, di misericordia, di riconciliazione, di solidarietà.
Si diventa operatori di pace se impariamo la logica della Croce, il fare della propria vita un dono per la vita dell’altro, il togliere a sé, al proprio desiderio egoistico di autoaffermazione, in favore del bene e della crescita dell’altro, cominciando proprio dai contesti in cui si vive.
Ai ragazzi, vi prego, insegniamo che la costruzione della pace – che come in un testo cantautoriale di qualche anno fa, alla stregua della costruzione di un amore “spezza le vene delle mani” – è cosa seria e che l’arcobaleno di una bandiera può colorare foto e storie Instagram, ma da solo non sarà capace di colorare il mondo in cui viviamo se non ci mettiamo le nostre azioni, i nostri sforzi, il nostro tempo per costruire, mattone dopo mattone, la pace, il bene, la civiltà dell’amore, il Regno di Dio.
Operatori di pace, destino ineludibile dei figli di Dio
di Ernesto Perrone
Per i Romani il discorso era abbastanza semplice e sbrigativo: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). Così erano soliti affermare come un comandamento obbligato per, praticamente, imporre la pace con la forza delle armi. Insomma, una sorta di minaccia di guerra preventiva, una vera e propria teorizzazione del ricatto bellicistico, che tanti “adepti” si è fatta nel corso dei secoli e, a quanto pare, molto anche ai nostri tempi (Ucraina, in primis, docet, dopo innumerevoli epigoni sparsi per il mondo dal Medio-Oriente all’Africa). Una maniera molto pratica e anche piuttosto originale di perseguire contemporaneamente due concetti tra loro in realtà opposti: pace e guerra.
Questa triste ma realistica premessa, purtroppo attuata tantissime volte nel corso dei secoli e anche nel tragico presente che viviamo, ci aiuta però ancora di più a capire bene ed in profondità la svolta storica, sia sul piano religioso che su quello più propriamente etico, del messaggio consegnato da Gesù nel Discorso della Montagna riportato da Matteo. Qui viene totalmente ribaltata ogni logica, seppur contorta, tipicamente umana nel regolare le relazioni tra i popoli e le persone per introdurre un seme di “divinità” nel nostro modo di agire. Infatti l’alternatività di comportamento e di scelte di vita prospettata da Gesù nasce da presupposti completamente nuovi e per questo con dentro una carica profondamente innovativa, concreta e realistica: è la rivoluzione del cuore. Nessuno prima di lui aveva avuto la forza e soprattutto la credibilità di poter proclamare, in particolare, in quella che viene definita la Magna Charta del Cristianesimo:”Beati quelli che operano per la pace perché saranno chiamati figli di Dio”. Quanta attualità in questo invito rivolto ad ognuno di noi chiamato a farsi costruttore attivo di pace e non solo osservatore asettico della legge della giungla bellica praticata di solito dai potenti sulla pelle dei più deboli.
In realtà la pace, di cui parla il Maestro, non è assolutamente da confondere con quella condizione esteriore che si traduce in una ragnatela di rapporti improntati più o meno al rispetto dell’altro, ai diritti dei più svantaggiati e alle istanze concrete dei nostri fratelli che aspirano a una vita tranquilla e senza traumi. In altre parole, quello di Gesù non è riducibile a un pur lodevole ma astratto manifesto pacifista nutrito di slogan più o meno convincenti o, al contrario, traboccanti di vuota retorica e perciò sterili. Se il discorso di Gesù si limitasse a tale livello, per così dire, genericamente “pacifista”, non risolverebbe in radice il problema della convivenza civile che è ben più complessa e con una scala di (dis)valori che si avvicina molto alla teoria dell’ “Homo homini lupus” di hobbesiana memoria. La rivoluzione, la vera “metanoia” deve al contrario partire da “dentro”; è da qui che ciascuno di noi può apporre il suo personale mattone per l’edificazione della civiltà dell’amore. Come dimostra la tragica attualità dei nostri giorni, confermata da secoli di illusioni e di atrocità, la pace “spianata” dalle armi può essere solo fonte di altri conflitti.
La lezione di Gesù, il Maestro Buono che smentisce nel concreto i Cattivi Maestri di ogni epoca, è davvero scomoda perché è verità e non ha bisogno di astruserie filosofiche o di facili parole d’ordine: la pace deve partire dal cuore; questo il messaggio del nuovo e più aggiornato Decalogo offertoci da Gesù nelle Beatitudini che non sono quindi vaghe e utopistiche teorizzazioni di un sapiente qualunque, ma sono la proiezione, con evidenti e concreti risvolti nella vita di tutti i giorni, della sapienza di Dio. La pace non si “proclama” o, peggio, si costruisce con l’odio, ma si “fa”, non la si subisce ma la si prepara con le nostre scelte di vita nutrita di amore perché il presupposto al quale Gesù ci richiama è sempre lo stesso: siamo fratelli nel nome del Signore perché tutti figli dello stesso Padre che è amore e questa è l’unica e definitiva “ricetta” per costruire un mondo nuovo e più rispettoso dell’uomo, creatura d’amore di Dio. Sarà ciascuno di noi capace di rinunciare all’orgoglio e all’egoismo che dettano di solito tempi e modi della nostra rotta esistenziale?
La prova regina della verità di quanto proclamato da Gesù sta nella sterminata scia di sangue, rancori, odi, ripicche, voglia di vendetta insita in tutte le guerre (e qui mi riferisco non solo a quelle combattute con le armi, ma anche a quelle che ogni giorno ingaggiamo con i nostri simili per imporre il nostro smisurato ego). No, non è questa, ci dice il nostro amico e fratello Gesù- profondo conoscitore dell’animo umano-, la via per rendere il mondo quella casa comune e vivibile che Dio ci ha affidato quali suoi figli prediletti.
Se non comprendiamo e soprattutto non ci sforziamo di vivere questa verità, la lezione d’amore infinito indicataci dal Cristo quale percorso unico e obbligato per ritornare ad essere suoi imitatori, verrà ancora una volta spazzata via dalla Storia, dalle nostre storie di quotidiana superbia. La tragedia dell’Ucraina, insieme alle tante registrate in questi due millenni, sembra di fatto riproporre il grido di eterna e sconsolata attualità dei versi di Salvatore Quasimodo:” Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”. Infatti, a fronte della beatitudine promessa e offerta a noi dal Maestro delle nostre coscienze, parrebbe profilarsi dinanzi al tuonare dei cannoni ed allo strepitio delle armi l’ennesimo, apparente fallimento della vicenda umana.
E quindi, mi chiedo, quale prezzo ancora dobbiamo pagare per le nostre miopie? Quale mondo vogliamo affidare alle generazioni future? Una realtà, come nei fatti ci appare oggi, abitata dalla paura, dalla precarietà, dall’incertezza esistenziale, a sua volta “madre” di tanti “figli” degeneri che si chiamano rifiuto dell’altro, chiusura nei nostri tranquillizzanti recinti, rinuncia a ogni scelta di carità? Ma Gesù, padre buono e comprensivo dei nostri limiti, non si stanca di allungare verso di noi la sua misericordiosa mano di salvezza e ci offre l’alternativa a tale scenario di morte dello spirito: la speranza della felicità, la realizzazione della beatitudine degli operatori di pace, che affonda nel profondo del nostro cuore riconciliato con Dio che può ancora chiamarci quindi suoi “figli”.
La Parola, le parole